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Giorgio G.C. Palumbo

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La ricerca di vita intelligente e pianeti abitabili nell'Universo

La mattina di giovedì 17 febbraio del 2000 saranno trascorsi 400 anni da quando Giordano Bruno venne messo al rogo in Piazza dei Fiori a Roma per aver sostenuto, nei suoi scritti, che "...la magnificenza di Dio è glorificata non in uno ma in mille soli; non in una terra, un singolo mondo, ma in migliaia di migliaia, io dico una infinità, di mondi". Bruno non era un astronomo ma un filosofo, impregnato di misticismo e magia medioevale, si teneva a rispettosa distanza dalle osservazioni e disprezzava la matematica. Per educazione e carattere non era incline all'umorismo. Pagò il prezzo più caro per aver creduto nelle conclusioni a cui lo portava la ragione.

Sicuramente qualcuno prima di lui (sembra Epicuro sia stato il primo, almeno tra i personaggi della storia della civiltà occidentale) e molti dopo di lui hanno sostenuto la stessa opinione. Alcuni con toni salottieri, come Bernard le Bovier de Fontenelle (Entretiens sur la pluralité des mondes, 1686) o Nicolas Camille Flammarion (Le meraviglie del cielo, 1885), o, con argomentazioni fisico-matematiche, Lord Kelvin (1871).

Non esiste telescopio così potente da poter produrre immagini dirette di pianeti intorno a stelle diverse dal Sole, per questo motivo la conferma che il nostro Sistema solare non è unico è arrivata con una certa lentezza.

Miliardi di stelle, rosse, gialle, arancione, blu e bianche brillano negli spazi a distanze che si misurano in milioni di miliardi di chilometri, migliaia di volte più lontane del più lontano dei pianeti del nostro Sistema solare. Nel 1995, per la prima volta, sono stati rivelati i primi segni dell'esistenza di pianeti extrasolari attraverso le minuscole oscillazioni che questi pianeti inducono sulla stella intorno alla quale orbitano. Negli anni seguenti gli astronomi hanno dimostrato che la presenza di pianeti e di sistemi planetari non è confinata al Sole, ma si tratta piuttosto di un processo generale che accompagna la formazione delle stelle. Le premesse fanno sperare che nei prossimi decenni saremo in grado di sapere su quali, di questi pianeti, si trova l'acqua e, forse, la vita. Nelle pagine seguenti cercheremo di percorrere le tappe che hanno portato a questi risultati e discuteremo, brevemente, quali strade si percorrono e si potranno percorrere, per entrare in comunicazione con esseri intelligenti, qualora essi esistano, che abitino altri pianeti.

 

Prima di iniziare una ricerca di pianeti intorno a stelle che non siano il Sole, è opportuno conoscere il nostro Sistema solare. L'argomento è stato ampiamente trattato in precedenti lezioni e pertanto evidenziamo solo alcuni punti di particolare rilievo per il nostro discorso. Il 99% della massa del Sistema solare risiede nel Sole e i pianeti, da questo punto di vista, contribuiscono pochissimo. Contrariamente ad affermazioni che si sentono e si leggono spesso, il Sole non è una stella qualunque e non solo perché è la "nostra" stella, ma perché è una delle più brillanti della nostra Galassia (per la precisione entro il 5% più brillante). Ogni secondo 600 milioni di tonnellate di idrogeno nel suo interno sono convertite in elio, generando una energia tale che a 149 milioni di chilometri di distanza (questa è l'Unità Astronomica), dove ci troviamo noi, concentrando la luce che ci raggiunge con una lente di un occhiale da miope si riesce ad incendiare un foglio di carta. Il pianeta più vicino al Sole, Mercurio, ruota piano, cosicché i giorni e le notti sono lunghi e gli sbalzi di temperatura enormi. Durante il giorno su Mercurio si misurano circa 400 °C, mentre di notte circa 200 sotto zero. Solo Venere è più caldo e solo Urano, Nettuno e Plutone sono più freddi. La superficie di Mercurio è altrettanto disarmante, di aspetto lunare cosparsa di crateri. Venere, ancorché a distanza doppia dal Sole di Mercurio, ha costantemente una temperatura di circa 450 °C a causa di una densa atmosfera di ossido di carbonio che produce un effetto serra di estrema efficienza, che intrappola la radiazione solare. Ancorché ostile, Venere assomiglia in modo sorprendente alla Terra. La Terra non ha bisogno di presentazione: per il 71% ricoperta da acqua, ha una atmosfera ricca di piogge che alimentano la copiosa vegetazione. L'atmosfera è una mistura di volatile ossigeno (21%) e di inerte idrogeno (78%). Parte dell'ossigeno forma uno strato di ozono che, convenientemente, scherma il pianeta Terra e le creature, vegetali ed animali, che lo abitano dalle radiazioni ultraviolette, ad esse nocive. La Terra è il solo dei 4 pianeti piccoli (i più vicini al Sole) che abbia una luna. L'ultimo dei 4, Marte, non condivide nessuna delle piacevoli condizioni terrestri. Di dimensioni circa la metà del nostro pianeta, Marte è un deserto, la cui sottile atmosfera non possiede né ossigeno né ozono. In passato Marte può essere stato più caldo e più umido e, forse, ha ospitato la vita. Ci sono stati innumerevoli annunci di "prove" di esistenza di "marziani", tra le quali l'ultima nel 1996, quando venne annunciato che fossili di vita marziana erano stati trovati in un meteorite proveniente da quel pianeta e ritrovato in Antartide. Le critiche a questa scoperta sono state molte, ma hanno comunque favorito l'approvazione di una missione con astronauti verso il pianeta rosso in un prossimo futuro. Intorno a Marte orbitano due piccolissimi satelliti, Fobos e Deimos, probabilmente meteoriti catturati. Passata la cintura degli asteroidi si incontra il gigantesco Giove, undici volte più grande della Terra, che contiene circa il doppio della massa di tutti gli altri pianeti messi insieme. Giove è un gigante gassoso, una massa di idrogeno ed elio con, sembra, un nucleo solido. Con la poderosa attrazione gravitazionale che esercita trattiene 16 satelliti, quattro dei quali, i medicei o galileiani, hanno masse maggiori della nostra Luna. Saturno, che con i suggestivi anelli appare così diverso dai compagni, è un altro gigante gassoso la cui massa è però un terzo di quella di Giove. Nonostante ciò Saturno è circondato da 19 satelliti di cui Titano, il maggiore, ha dimensioni maggiori della Luna e un'atmosfera composta in gran parte di azoto e molto più spessa di quella terrestre. Urano e Nettuno sono di massa inferiore a Giove e Saturno e non sono gassosi; idrogeno ed elio fanno parte delle loro atmosfere, ma il pianeta è solido, probabilmente un miscuglio di acqua e roccia. L'ultimo dei "viandanti" (questo il significato dell'originale termine greco) è Plutone, così lontano dal Sole che la temperatura alla superficie raggiunge i -200 °C; Plutone è solido e, a causa dell'orbita molto ellittica, è stato, negli ultimi dieci anni, più vicino al Sole di Nettuno.

La distanza dal Sole determina la temperatura, il periodo orbitale e la dimensione di un pianeta. In prima approssimazione Venere si trova a distanza doppia di Mercurio dal Sole, Saturno a distanza doppia di Giove e Urano a distanza doppia di Saturno; questa regola, nota come legge di Titius-Bode, potrebbe essere rispettata anche in altri sistemi planetari diversi dal nostro. La temperatura di un pianeta è legata alla distanza dalla stella e, per favorire la vita, deve essere in quel piccolo intervallo (0-100 gradi) in cui è permessa l'acqua allo stato liquido. Naturalmente un altro fattore importante è la presenza di una atmosfera con una certa composizione. Se l'atmosfera c'è e contiene gas che permettono l'effetto serra, allora temperature elevate possono essere raggiunte anche se il pianeta si trova a distanze relativamente grandi dalla stella centrale. Nel nostro Sistema Venere è, come si è detto, più caldo di Mercurio anche se a distanza doppia dal Sole, e sulla Terra l'acqua è quasi ovunque allo stato liquido. Se non ci fosse l'effetto serra, la superficie del nostro pianeta sarebbe a -50 °C e la vita non sarebbe stata possibile. Ci sono poi Giove, Saturno e Nettuno che generano più calore di quanto non ne assorbano dal Sole, dal quale sono, in verità, molto distanti. A causa di questi diversi fattori stimare la temperatura di un pianeta non è facile e, quando si parla di pianeti intorno ad altre stelle, si possono dare solo valori necessariamente approssimati.

Forse una delle caratteristiche più salienti del nostro Sistema solare sta nel fatto che i pianeti piccoli Mercurio, Venere, Terra e Marte sono solidi e vicini al Sole (densità media 4-5 volte quella dell'acqua), mentre i rimanenti grandi e, se non gassosi, meno densi (densità media uguale a quella dell'acqua), sono tutti molto lontani. Si pensi che, mentre la luce solare impiega da un minimo di 3 a un massimo di 12 minuti per raggiungere i primi 4 pianeti, essa impiega da una a cinque ore e mezzo per raggiungere quelli esterni. La massa dei quattro pianeti interni ammonta a circa due masse terrestri. Tutti e quattro sono simili in composizione, presentando roccia e ferro e sulle loro solide superfici la vita avrebbe benissimo potuto evolversi se la temperatura lo avesse permesso. Dal momento che su uno di essi ce l'ha fatta, è ragionevole pensare che questi sono i corpi celesti che si devono cercare, ma sfortunatamente la loro massa è così piccola che sono difficili da trovare.
All'estremo del Sistema solare si trova la cintura di Kuiper, una zona di piccoli corpi ghiacciati alcuni dei quali sfuggono e diventano comete di breve periodo. Molto più lontano, sempre allontanandosi dal Sole, c'è un'altra cintura di corpi ghiacciati, la nube di Oort, da cui nascono le comete a lungo periodo.

La distanza dal Sole determina la durata dell'anno di un pianeta: più lontano un pianeta si trova dal Sole, più lungo sarà il suo anno e viceversa. Come esempio estremo si pensi a Mercurio e Plutone; il secondo è cento volte più lontano dal Sole del primo, di conseguenza la sua orbita è cento volte più larga, inoltre si muove a velocità cento volte inferiore, pertanto mentre Mercurio fa un giro intorno al Sole in circa tre dei nostri mesi, Plutone impiega due secoli e mezzo per compiere lo stesso percorso. Questa relazione tra periodo orbitale e distanza dalla stella centrale è di estrema utilità per l'astronomo cercatore di pianeti extrasolari. Supponiamo che si osservi una stella simile al Sole e si noti che essa è disturbata da un pianeta che orbita intorno ad essa ogni 12 anni. Anche se il pianeta non può essere visto, si può dedurre che il pianeta è ad una distanza dalla stella simile a quella di Giove dal Sole e quindi dedurre che il pianeta è, con ogni probabilità, troppo freddo per poter ospitare la vita. Va inoltre tenuto presente che, se la stella non è simile al Sole, le cose cambiano; un pianeta tipo Giove intorno ad una nana rossa, con massa un quarto di quella solare, completerebbe la propria orbita in un tempo 4 volte più lungo, ovvero in 24 anni.

Tutti i pianeti nel nostro Sistema ruotano intorno al Sole nella stessa direzione, che è anche quella in cui ruota il Sole. Ciò suggerisce che essi ebbero origine da un disco corotante quando il Sole era in formazione. L'ipotesi più accreditata è che i pianeti si siano formati da particelle solide che, ammassate in dense fasce intorno al Sole grazie ad un meccanismo che produce effetti simili alla centrifuga, si sono compattate in grosse masse spaziate tra loro. Altra caratteristica è la quasi circolarità delle orbite; nel Sistema solare solo i pianeti più leggeri hanno eccentricità maggiori di 0.10 (la scala è 0.00 per un cerchio perfetto e 1.00 per l'elongazione massima permessa dalla attrazione gravitazionale tra i due corpi). Dal momento che le stelle doppie (circa la metà delle stelle) hanno eccentricità molto alte, la misura dell'eccentricità è un buon mezzo diagnostico per separare i compagni dubbi. Si è visto che i satelliti sono comuni per i pianeti del Sistema solare ma, va notato, solo 7 hanno dimensioni lunari. Giove ne ha 4, Saturno e Nettuno uno e naturalmente la Terra ha la Luna che, con gli effetti mareali, produce un continuo movimento delle acque oceaniche grazie al quale, si ritiene, la vita si è potuta trasferire dal mare alla Terra.

Per il momento, ciò che si sa dei pianeti vicino a noi dipende dalla distanza di ognuno di essi da noi e dal numero di veicoli spaziali che, con successo, si sono avvicinati e ci hanno inviato informazioni. Per ora mentre tutti, ad eccezione di Plutone, sono stati sorvolati almeno una volta da una navicella spaziale, solo intorno a 3 (Venere, Marte e Giove), oltre naturalmente alla Terra, ne è stata messa in orbita una e solo su Venere e Marte una sonda è scesa fin sulla superficie. Molta strada, quindi, deve ancora essere percorsa, prima che si possa ritenere di conoscere i componenti del nostro Sistema solare. D'altra parte, chi ci assicura che i sistemi planetari siano la norma? Il fatto che la nostra stella ne possegga uno non garantisce che non sia unico. È quindi necessario esaminare gli aspetti salienti delle teorie di formazione stellare per cercare di capire quali siano le probabilità secondo le quali possiamo aspettarci altri casi anche se la risposta finale alla domanda se esistano altri pianeti su cui è possibile la vita verrà dalle osservazioni.

 

Se si percorrono 40.000 miliardi di chilometri (4.3 anni luce) attraverso il freddo spazio interstellare si raggiunge la gialla stella Alfa del Centauro, la stella nostra vicina. In una sfera con una dozzina di anni luce di raggio si trovano circa 25 stelle, le più sono deboli ma alcune abbastanza brillanti, alcune sono bianche o gialle ma la maggioranza sono arancione o rosse. Anche se nel cielo stellato le stelle brillanti sembrano dominanti, questa è solo una illusione o, come si dice in gergo astronomico, un effetto di selezione. Circa 80% delle stelle della nostra Galassia sono nane rosse, il 9% nane K, il 5% nane bianche e solo il 4% del totale sono di tipo G, ovvero stelle di sequenza principale e del tipo a cui appartiene il Sole. Un trascurabile 2% comprende tutte le altre. Se si è propensi a credere che la probabilità di trovare pianeti, magari con tracce di vita, è maggiore intorno a stelle tipo Sole e, per motivi di sensibilità dei telescopi, ci si limita alle stelle più vicine, vale la pena considerare solo 4-5 stelle ogni cento . Questo dato è scoraggiante, anche se in totale sui circa 1000 miliardi di stelle della nostra Galassia circa 40 miliardi sono simili al Sole. Su queste basi si potrebbe immediatamente concludere che nella Galassia quasi sicuramente una o alcune di queste stelle di tipo solare hanno dei pianeti su cui esiste qualche forma di vita, ma altrettanto sicuramente nessuna è così vicina a noi da permetterci di sperare di osservarli.

Gli astronomi hanno lottato per secoli con il problema di misurare la distanza delle stelle; il metodo tuttora in vigore è quello della misura della parallasse.

A causa della diversa posizione della Terra rispetto al Sole, durante una rotazione una stella è vista con diversa prospettiva: lo spostamento apparente, o parallasse, è tanto maggiore quanto più vicina è la stella. Questo effetto è analogo a quanto si osserva attraversando una strada, allorché il cartello stradale sembra spostarsi molto di più delle lontane montagne sullo sfondo. Alcune stelle poi sembrano mutare posizione nel corso degli anni, rispetto alle altre stelle vicine. Questo "moto proprio" è dovuto al fatto che esse sono più vicine a noi delle altre e ciò accade perché le stelle viaggiano attraverso lo spazio su cammini diversi tra loro e da quello percorso dal Sole. Continuando con il paragone della strada, il moto proprio è analogo a ciò che vede un autista quando percorre a velocità sostenuta una strada: i segnali stradali sembrano sfrecciare velocemente, mentre le lontane montagne sullo sfondo sembrano spostarsi molto lentamente. La tecnica di misurare parallasse e moto proprio è l'astrometria, che ci permette di catalogare le stelle a seconda della loro distanza da noi.

L'astrometria ci permette anche di individuare quali stelle sono doppie e quali triple e, con la stessa tecnica, quali hanno pianeti e quali no. Un tempo sia Sirio che Procione erano ritenute stelle singole, come lo è il Sole. Le invisibili compagne furono messe in evidenza per la prima volta nel 1844 dal matematico e astronomo tedesco Friedrich Wilhelm Bessel, il quale notò che i loro moti propri non erano costanti e propose che la causa delle variazioni fosse una compagna troppo debole per essere osservata. Se si potesse osservare il Sole da una distanza di 10 anni luce, si potrebbe notare che la presenza di Giove (che ha una massa che è un millesimo di quella solare) crea oscillazioni di 1.6 millesimi di secondo d'arco (ovvero un angolo che è uguale a una parte su tre milioni e seicentomila di un grado, ovvero lo spessore di un capello umano visto da 3 chilometri di distanza). Gli altri pianeti perturberebbero il Sole molto meno, data la minore massa. La speranza di misurare la presenza della Terra appare nulla! In altri Sistemi solari tutto dipende dalla massa della stella centrale: minore è la massa più un pianeta la fa oscillare. Nulla ci impedisce di credere, però, che stelle più piccole abbiano pianeti più piccoli; se questo fosse vero il vantaggio svanirebbe. La consistenza dell'oscillazione astrometrica è dipendente dalla distanza stella-pianeta, più che dalla massa. Nel nostro Sistema solare, ad esempio, Urano e Nettuno hanno circa la stessa massa, ma Nettuno produce una oscillazione astrometrica circa doppia di Urano. La causa di ciò risiede nel fatto che la stella ed il pianeta ruotano intorno al centro di massa, che è il punto dove si porrebbe il fulcro se si unissero le due masse e le si volesse porre in equilibrio. Il centro di massa si trova quindi tra i due oggetti ed è più vicino all'oggetto più pesante. In conclusione è molto più facile rivelare un pianeta pesante e lontano dalla stella per cui, nel caso del nostro Sistema solare, sarebbero facilmente rivelabili i pianeti esterni.

Per molte ragioni la ricerca di pianeti extrasolari si è concentrata su stelle vicine, non ultimo il fatto che le oscillazioni astrometriche della stella in apparente moto sono più facilmente visibili.

centro di massa
Figura 1.Il centro di massa di un sistema stella-pianeta non si muove, ma sia la stella che il pianeta gli ruotano intorno (linea tratteggiata). Gli astronomi possono, quindi, scoprire l’esistenza del pianeta (altrimenti non visibile) se osservano le oscillazioni astrometriche intorno al centro di massa (curva punteggiata).

Appartenente alla costellazione della Lira, associata dagli antichi Greci alla musica, Vega è la quinta stella più brillante del firmamento. Dal 1983, quando è entrato in funzione un satellite chiamato IRAS (Infrared Astronomical Satellite), con a bordo un telescopio capace di misurare la radiazione infrarossa emessa dai corpi celesti, è noto che Vega emette una cospicua quantità di radiazioni a lunghezza d'onda centrata sui 100 micron (la lunghezza d'onda di un micron, ovvero un millesimo di millimetro, è un po' maggiore di quella della luce rossa visibile). Tale emissione era totalmente inaspettata, poiché Vega è una stella di tipo A0 con massa circa il doppio di quella del Sole e, secondo le moderne teorie di evoluzione stellare, dovrebbe essere molto debole a 100 micron. È però noto che materia solida ricca di carbonio e silicio, non importa di quale dimensione, dal grano di polvere all'asteroide al pianeta, assorbe la luce ultravioletta emessa da una stella vicina e la riemette nell'infrarosso. Questo effetto è osservabile frequentemente quando il Sole tramonta, poiché la luce solare al tramonto attraversa una quantità maggiore di atmosfera di quando è alto sull'orizzonte e quindi incontra maggiori quantità di gas e polvere che la assorbono e la riemettono nel rosso e infrarosso; per questo i tramonti sono rossi.

Dapprima si pensò che ciò che si vedeva intorno a Vega fosse un asteroide, ma una stima della massa e distanza che avrebbe dovuto avere per spiegare la radiazione misurata da IRAS produsse valori esagerati e quindi impossibili. La conclusione finale fu che Vega è circondata da un anello di polvere ma, e qui viene la scoperta, tali grani non hanno dimensioni simili alla polvere interstellare (meno di un micron), ma sono migliaia di volte maggiori, il che suggerisce il fatto che, per la prima volta, si è rivelato un anello di materiale che indica la formazione di un futuro sistema planetario. Queste grosse particelle, insomma, dovrebbero essere ciò che rimane della nube prenatale di gas e polvere rimasta dopo la formazione della stella, nel nostro caso Vega. Questo è in accordo con una accreditata teoria di formazione di sistemi planetari basata sul nostro Sistema solare. Inoltre le particelle potrebbero essere cresciute da particelle più piccole, oppure residui di urti di asteroidi e comete avvenuti nel passato. In entrambi i casi, Vega potrebbe possedere anche pianeti, possibilmente un completo sistema planetario, non visibile da IRAS. Una accurata analisi dei dati IRAS (200.000 sorgenti infrarosse) ha prodotto altri candidati, dei quali tre di tipo A come Vega, tra cui Beta Pictoris. (Si fa qui riferimento alla classificazione delle stelle basata sulle caratteristiche dei loro spettri. Tale classificazione venne stabilita ad Harvard tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, mantenendo il principio definito da padre Angelo Secchi, che aveva ordinato gli spettri secondo temperature stellari decrescenti e, di conseguenza, colori passanti dal bianco al rosso. Si va così dalle stelle più calde, di tipo O, alle più fredde, atttraverso i tipi B, A, F, G, K, M, R, N, S. Oltre alla temperatura, gli spettri stellari sono influenzati dalla pressione e dalla composizione chimica; il diagramma di Hertzsprung e Russell, riportato in questo volume da Bruno Marano, è uno degli strumenti utilizzati dagli astronomi per approfondire le conoscenze sulle caratteristiche fisiche delle stelle.) Non si pensi che le stelle di tipo A abbiano qualcosa di strano; esse sono solo molto brillanti e scaldano la polvere che le circonda molto meglio di altre stelle e quindi la rendono visibile nella banda dei rivelatori IRAS. Se intorno a Vega vi fosse un satellite IRAS, il Sole, con tutti i corpi del Sistema solare, sarebbe solo l'1% più brillante di una qualsiasi stella G sua simile.

Un'altra stella del catalogo IRAS immersa nella polvere è Epsilon Eridani. Questa scoperta è stata la più eccitante, in quanto Epsilon Eridani è una stella vicina a noi e molto simile al nostro Sole: se si fosse trovata alla distanza di Vega, IRAS non avrebbe potuto rivelare la radiazione che la polvere emette. Ritorneremo a parlare di questa stella perché, poco dopo le scoperte di IRAS, gli astronomi hanno ottenuto una immagine fotografica del disco intorno ad Epsilon Eridani e quindi prova di un possibile Sistema planetario.

 

Nel 1995 due astronomi svizzeri hanno fatto una delle più spettacolari scoperte del ventesimo secolo, allorché hanno trovato il primo, vero pianeta in orbita intorno ad una stella che non sia il Sole. La stella in questione appartiene alla costellazione autunnale di Pegaso, il cavallo alato, e nei cataloghi astronomici è indicata come la cinquantunesima. A 50 anni luce da noi, 51 Pegasi appare come apparirebbe il Sole a pari distanza. Come Alfa Centauri, 51 Pegasi è quasi una virtuale gemella del Sole, cioè una stella di sequenza principale di tipo spettrale G gialla e brillante.

Michel Mayor, dell'Osservatorio Astronomico di Ginevra ed il suo ex studente Didier Queloz avevano costruito un apparato capace di misurare la velocità con cui si muovono (allontanano o avvicinano) le stelle rispetto a noi con una precisione di 13 metri al secondo (ovvero 46.8 chilometri l'ora; si ricorda che la Terra si muove lungo la propria orbita a circa 100000 chilometri all'ora). Questa misura è possibile osservando contemporaneamente e paragonando lo spettro che si ottiene dalla stella in esame con un analogo spettro emesso da una lampada di calibrazione appositamente costruita in laboratorio. Nell'aprile del 1994 ebbe inizio la ricerca di pianeti extrasolari presso il telescopio dell'alta Provenza, nel sud della Francia. Mayor e Queloz avevano una lista di 142 stelle candidate da osservare, tutte molto simili al nostro Sole, cioè di tipo G (di colore giallo) o K (arancione). In settembre venne il turno di 51 Pegasi, ma le velocità registrate differivano da una notte alla seguente anche di 60 metri al secondo, cioè circa 4 volte la precisione dello strumento. Scartate tutte le ipotesi che implicavano un malfunzionamento dello strumento, nel gennaio del 1995 venne ricavato l’andamento del moto di 51 Pegasi e qui riportato in figura 2.

oscillazioni
Figura 2.Oscillazioni della stella 51 Pegasi causate dalla presenza di un pianeta in orbita intorno ad essa. La stella si muove verso di noi, quindi inverte la direzione del moto e si allontana da noi ogni 4.2 giorni (ovvero 4 giorni, 4 ore e 48 minuti)

Tale oscillazione periodica non poteva che essere causata dalla presenza di un secondo corpo massiccio in rotazione intorno a 51 Pegasi, immediatamente si pensò che per la prima volta si era "visto" un pianeta extrasolare.

La prima cosa che colpì i due astronomi fu la breve durata del periodo di rotazione del pianeta appena scoperto, se si pensa che Mercurio impiega 88 giorni a compiere un'intera rotazione intorno al Sole. Il nuovo pianeta dunque sembrava essere ciò che non si riteneva possibile, un pianeta gassoso vicinissimo alla stella. Prima che i due ricercatori potessero ripetere le misure, la stella, a causa della rotazione terrestre, sparì dietro il Sole e non fu più osservabile per circa 3 mesi. Questo tempo fu impiegato in laboriosi calcoli volti a predire dove sarebbe stato l'ipotetico pianeta "strano" non appena fosse nuovamente osservabile. In luglio, al giorno predetto, con trepidazione, venne fatta la prima misura e poi la seconda, le misure cadevano esattamente dove i calcoli avevano predetto. Altre misure seguirono febbrilmente: era confermata la periodicità del moto della stella, fu stappato lo champagne ma non c'era ancora la "prova" che esistesse il pianeta. Vennero prese in esame tutte le spiegazioni possibili che non coinvolgessero la presenza di un pianeta: pulsazioni della stella, stella compatta come compagno, gigantesche macchie simili alle macchie solari sulla superficie di 51 Pegasi, ecc., ma tutte vennero scartate. Il 6 ottobre, ad una conferenza tenutasi a Firenze, presenti circa 300 scienziati ed esponenti della stampa internazionale, Mayor e Queloz annunciarono la loro scoperta: un nuovo pianeta di periodo 4.2 giorni, a 0.05 unità astronomiche da 51 Pegasi, con temperatura stimata circa 1000 °C, molto maggiore di quella di qualsiasi pianeta del nostro Sistema solare. Inoltre, e questo è il dato più sorprendente, il nuovo pianeta ha una massa circa la metà di quella di Giove e si presume sia interamente gassoso. Questa scoperta non ha ottenuto l'eco che ci si sarebbe potuti aspettare. Buona parte dei presenti alla conferenza espose ragioni per essere dubbiosi della scoperta annunciata.

In ambiente astronomico le notizie viaggiano veloci. Il 17 ottobre Marcy e Butler, due astronomi in California, confermavano, con tecniche diverse, la scoperta dei due Svizzeri. Questa volta The New York Times, The Washington Post e altri quotidiani americani pubblicarono la notizia in prima pagina e, il giorno seguente, la stessa notizia apparve sulla prima pagina di tutte le testate del mondo. Naturalmente gran parte degli articoli riferivano la scoperta come "americana".

 

Oggi la lista di stelle che presentano dei pianeti in orbita è cresciuta. Pianeti "strani", simili a quello di 51 Pegasi e che contraddicono le teorie sono stati rivelati intorno a Rho Cancri A, Tau Bootes A, Ipsilon Andromedae, Rho Coronae Borealis; un pianeta gigante classico, tipo Giove, si è visto intorno a 47 Ursae Majoris. Pianeti simili ai 4 "terrestri" sono stati rivelati solo intorno a 3 stelle compatte e pulsanti (pulsars). La loro scoperta, anche se di grande interesse scientifico, non appare particolarmente attraente, perché non esiste la benché minima speranza che su tali pianeti vi sia una qualche traccia di vita, in considerazione della totale inadeguatezza della pulsar a fornire l’energia di supporto necessaria a sostenere la vita quale la conosciamo.

Un passo fondamentale è stato fatto, ma la strada da percorrere rimane lunga. Mentre oggi si può affermare che i pianeti sono la norma, piuttosto che l'eccezione, intorno a stelle simili alla nostra, non è ancora chiaro quanti di questi siano in condizioni favorevoli per lo sviluppo della vita. Intanto la ricerca continua e continua pure la dettagliata esplorazione dei pianeti nostri vicini. Sonde spaziali sono in viaggio e molte altre sono in fase di realizzazione o semplicemente di progettazione, con mete verso Marte, Giove, Titano ecc. Si prevedono, in un futuro non troppo lontano, missioni planetarie con astronauti, che riportino non solo dati, ma materia di altri pianeti. Lo scopo di tutto ciò è riuscire ad accumulare sufficiente informazione per comprendere quali sono le condizioni essenziali per produrre e sostenere la vita. La caccia ai pianeti extrasolari è appena iniziata, ma quando si identificheranno con precisione pianeti di masse diverse, magari simili in dimensioni alla Terra, cosa oggi non ancora possibile, allora si potrà spostare l'attenzione verso la composizione chimica e le condizioni fisiche dei corpi celesti individuati, per meglio comprendere quanto simili a quelle terrestri essi siano. Allora saremo vicini a confermare le predizioni di Giordano Bruno e sarà giunto il momento di porsi domande diverse da quelle puramente fisiche ed astronomiche.

Se oggi siamo all'inizio dell'esplorazione di altri mondi, nel 1956 pensare ad esseri intelligenti su mondi lontani sembrava fantascienza, se non follia, eppure Giuseppe Cocconi e Philip Morrison quell'anno pubblicarono sulla prestigiosa rivista inglese Nature un articolo nel quale suggerivano che su un pianeta in orbita intorno ad una qualche stella simile al Sole, nella nostra Galassia, poteva esistere una civiltà simile alla nostra, ma molto più avanzata e proponevano modi per entrare in comunicazione con essa via radio. La radioastronomia era da poco diventata una via complementare allo studio del cosmo con telescopi ottici. Il rapido sviluppo delle tecniche di ricezione favoriva estrapolazioni positive; sembrava ovvio cercare di dare una risposta scientifica alla sintetica domanda posta da Enrico Fermi pochi anni prima, "dove sono gli altri?", che riassumeva perfettamente l'interrogativo rimasto inalterato attraverso tutta la storia dell'umanità, da Epicuro a Lord Kelvin. Le motivazioni per l'esistenza di altri esseri intelligenti era basata su argomentazioni statistiche: se esistono migliaia di miliardi di stelle nella Galassia, anche se solo una modesta percentuale è simile al Sole, vi sono almeno parecchi miliardi di stelle simili al Sole, anche se una piccola percentuale di esse ha pianeti esistono centinaia di milioni di pianeti e così via fino a concludere che non siamo soli.

Queste argomentazioni possono essere discusse secondo le regole del metodo scientifico su cui si basano tutte le nostre conoscenze. Non così se si adotta il così detto principio antropico, secondo il quale dal momento che noi esistiamo, l'intero universo deve essere stato costruito (creato) in modo da permettere la nostra esistenza, ovvero l'intero cosmo è funzionale alla presenza degli umani. Questa è una idea che trascende la scienza ed entra nei territori della filosofia e della religione, nei quali non intendiamo sconfinare.

Prima di incominciare a prendere sul serio l'idea di comunicare con gli extraterrestri, molti lavori furono pubblicati e presentati per discussione. I principali interpreti di questa disciplina furono il russo Iosif S. Shklovskiy e l'americano Carl Sagan e, subito dopo Frank Drake che fisicamente dette inizio e per anni continuò il progetto SETI (Search For Extraterrestrial Intelligence). Tutti gli argomenti a favore di SETI si basano sull'opinione (oggi confermata) che i pianeti sono un comune sottoprodotto della formazione delle stelle. Se esistono migliaia di milioni di pianeti in circolo intorno a stelle simili al Sole, non è difficile convincersi che almeno alcune abbiano sviluppato la vita e che questa si sia evoluta, magari sorpassandoci di millenni in sviluppo tecnologico. Qual è la probabilità che un pianeta vicino a noi ospiti tale civiltà? Partendo da questi interrogativi Drake arrivò a concludere che il numero di possibili interlocutori (civiltà osservabili) è proporzionale al numero di stelle favorevoli (tipo Sole)  moltiplicato per il numero che rappresenta la frazione di esse che ha pianeti, moltiplicato per il numero di questi pianeti con condizioni simili alla Terra, cioè capaci di mantenere la vita, moltiplicato per il numero di civiltà che su essi si sono sviluppate capaci di comunicare attraverso gli spazi interstellari (vita sono anche gli alberi e gli animali, ma né funghi né dinosauri sono in grado di trasmettere o ricevere segnali radio), moltiplicato per la frazione di esse interessate a farlo (particolari leggi, religioni o convinzioni filosofiche potrebbero inibire questa curiosità), moltiplicato per la durata di queste civiltà, moltiplicato per la frazione di questa durata in cui rimangono comunicative.

L'equazione di Drake, anche se un semplice prodotto di termini, è soggetta a grandi incertezze poiché alcuni dei termini stessi sono o altamente incerti o addirittura sconosciuti. Paradossalmente il più difficile da stimare è la durata di una civiltà. Non esistono esempi e l'unica nota, la nostra, esiste da qualche migliaio di anni, è comunicativa da meno di un secolo e non abbiamo nessun indizio, e forse solo una tenue speranza, che durerà e nessuna idea per quanto tempo.

In conclusione, per sapere se non siamo soli, per ora non vi è altro modo che ascoltare e sperare che "gli altri" trasmettano. Le ricerche di intelligenza extraterrestre sono state svariate nei decenni passati e alcune sono in corso. La strategia è fondamentalmente la stessa: si ricerca nella banda dello spettro radio, nella zona delle microonde, la presenza di segnali di banda stretta (di una sola frequenza) che abbiano origine dall'esterno del Sistema solare. La banda da 1 a 50 gigahertz ha il più basso contenuto di rumore di fondo e questo vale anche per gli alieni intelligenti, i quali dovrebbero accorgersene. La nostra atmosfera ci limita da 1 a 12 gigahertz e, se i nostri ragionamenti sono corretti, lo stesso dovrebbe valere per "gli altri". Per il momento possiamo solo sperare che qualcuno ci invii un segnale di proposito, un fascio puntato verso di noi, come fanno le trasmittenti radio-televisive. In California il progetto Phoenix mira alle stelle entro 200 anni luce da noi, con strumentazione che ascolta tra 1.2 e 3.0 gigahertz attraverso due miliardi di canali. Altri progetti (BETA, META II, SERENDIP., ARGUS, COSETI, ecc.) sono in corso sia nell'emisfero nord che sud.

Resta molto tenue la speranza di poter "noi" trasmettere a "loro" essenzialmente perché, anche alle massime potenze ottenibili, non si arriverebbe oltre qualche decina di anni luce con segnali relevabili (si ricordi che l'intensità di un segnale diminuisce con il quadrato della distanza tra emettitore e ricevitore). Si noti anche che, in caso di "contatto " con esseri extraterrestri intelligenti il dialogo sarebbe terribilmente complicato: ricevuto un segnale e accertato che proviene da un pianeta che ruota intorno ad una data stella, si risponde, si aspetta otto o più anni (perché qualsiasi "altra stella" dista dal Sole più di quattro anni luce) ed eventualmente si riceve un segnale, che viene inviato, si aspettano altri otto o più anni...e così via

 

In questo "gioco" di ricerca degli extraterrestri ci si deve rendere conto che le distanze tra noi e "loro" sono tali che non è immaginabile, neanche in un lontano futuro, visitare gli eventuali pianeti con astronavi o simili. D'altro canto abbiamo ampie prove che le leggi della fisica e della chimica che noi conosciamo valgono in ogni parte dell'universo finora noto e sembra vana l'illusione di invocare leggi che contraddicano ciò che sappiamo. Più veloce della luce non si può andare e muovere corpi materiali, anche a velocità relativamente modeste, richiede energie immense. Per il momento le colonie spaziali che trasportano generazioni attraverso centinaia di anni luce sono dominio della fantascienza. Esiste poi una carta Jolly nel gioco: gli scienziati non sono ancora riusciti a formulare una definizione soddisfacente di vita. I microbiologi non sono sicuri di quanto piccola possa essere la più piccola "cosa" vivente. Lord Kelvin suggerì che la vita potesse arrivare dallo spazio e c'è chi, come Sir Fred Hoyle e Chandra Wickramasinghe, ha ripreso l'idea e molte cose sembrano plausibili anche se non tutto si riesce, per ora, a spiegare con questa ipotesi. Una regola è certa: più piccolo e semplice è un organismo, più alta è la probabilità che sopravviva nelle estreme condizioni degli spazi interstellari. Chi può dire, se esistono i "nanobatteri", che essi possano essere i veri viaggiatori spaziali e, se se ne potesse raccogliere, forse avremmo in laboratorio i discendenti di colonie interstellari o magari intergalattiche.

 

Sicuramente molti pensano che perseguire seriamente studi di questo tipo sia tempo e danaro sprecato. Da queste speculazioni sono nati e nascono sottoprodotti di estrema importanza per le varie discipline, dalla radioastronomia alla microbiologia. Riflettere e argomentare in modo speculativo intorno a questioni come la vita extraterrestre e l'esistenza di civiltà aliene e come entrare in comunicazione con loro è, come la matematica, la musica e altre attività del pensiero, uno dei modi di differenziarci dai coinquilini del nostro pianeta, i compagni del regno animale. Cercare non sempre porta risultati, ma se non si cerca sicuramente non si trova.



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