Figura 1.
L'aver capito l'importanza del concetto di massa pose però Newton al di sopra dei suoi predecessori e contemporanei. Galileo, infatti, non distinse fra peso e massa e Huygens usò indifferentemente i due termini in tutti i suoi lavori. Newton si rese invece conto che il "peso" non è una proprietà invariabile del corpo, come fino ad allora si era ritenuto, bensì variabile e che ad ogni corpo è inerente una proprietà quantitativa che ne determina il movimento ed è diversa dal peso: la "massa". Venivano così per la prima volta distinti i concetti di massa e di peso.
I maggiori successi della meccanica newtoniana si ebbero nella definitiva comprensione del moto dei pianeti nel Sistema solare. Prima quindi di approfondire ulteriormente il problema della gravità, alla luce della Legge di Gravitazione Universale di Newton, facciamo un passo indietro e vediamo come erano descritti i moti dei pianeti nei principali sistemi pre-newtoniani, quello geocentrico ed eliocentrico.
I pianeti propriamente detti sono facilmente riconoscibili sulla volta celeste in quanto sono molto brillanti e, cosa che ne facilita il riconoscimento, si trovano sempre nella fascia dello Zodiaco. È possibile distinguerli, a seconda della rapidità con cui si muovono sulla Sfera celeste, in pianeti inferiori e pianeti superiori.
Già gli antichi osservarono che il moto di Mercurio e Venere (pianeti inferiori), rispetto al Sole, avviene lungo una direzione comune, quella dell'Eclittica, ma ora con moto diretto, ora con moto retrogrado. Non si accorsero però della presenza di fasi planetarie. È interessante notare come Venere e Mercurio (sebbene sia di difficile osservazione per Mercurio) presentino le stesse fasi della Luna in quanto entrambi riflettono la luce solare nello stesso modo del satellite della Terra. A questa importante conclusione giunse per la prima volta Galileo in seguito ad osservazioni delle fasi di Venere mediante l'uso del cannocchiale.
Non molto diverso dal moto dei pianeti inferiori è quello dei pianeti superiori, Marte, Giove e Saturno. Questo portò a produrre un comune modello interpretativo, in modo da ricondurre la complessità di quanto osservato nella Sfera celeste ad un unico schema.
Qual è la macchina celeste che, con il suo funzionamento, fa sì che un osservatore al centro della Sfera celeste osservi i moti planetari nel modo in cui appaiono?
Figura 2.
Per rispondere a questa domanda bisognava formulare delle ipotesi, riguardanti i moti dei pianeti, cioè costruire dei modelli del mondo che rendessero conto, per quanto possibile, di tutte le apparenze. Non era difficile spiegare il moto diurno della Sfera celeste, bastava supporre che tutto il firmamento: stelle, Sole, Luna e gli altri corpi celesti fossero portati intorno alla Terra da una sfera cristallina, mobile di moto uniforme ed imperniata ai poli celesti. Ciò era pienamente conforme a quanto si osservava.
Alla base di questo "sistema" sta il principio della circolarità ed uniformità dei moti celesti, uno dei cardini delle concezioni aristoteliche. Il modello mentale era quello, per dirla con Platone, di subordinare le leggi fisiche a principi divini e trascendenti salvando i fatti, cioè di ricondurre le apparenze, costituite dalle vistose irregolarità dei moti planetari, alla realtà di un moto che si supponeva dover essere circolare ed uniforme, in quanto perfetto, senza inizio e senza fine.
Nel sistema geocentrico, così chiamato appunto perché la Terra è immobile al centro dell'Universo, ogni corpo celeste ruota con moto uniforme attorno alla Terra. Le stelle fisse sono incastonate alla Sfera celeste e ruotano con essa. Si trattava di una grandiosa costruzione geometrica, capace di rappresentare in modo completo, particolareggiato ed anche quantitativo, tutti gli aspetti del cielo e di prevedere il corso di quei corpi celesti denominati pianeti. Esso venne proposto già da Ipparco e rielaborato più tardi, nel secondo secolo d.C., dall'astronomo alessandrino Tolomeo, nell'opera tradotta e tramandata dagli arabi col nome di Almagesto, da cui il nome di Sistema tolemaico.
In questo contesto ed in un clima culturale particolare, appare nel 1543 il De Revolutionibus Orbium Coelestium di Nicolò Copernico (1473-1543), nel quale è introdotto il sistema eliocentrico. Tale ipotesi era stata, per la verità, già formulata nel passato da Aristarco di Samo e da alcuni altri, ma i tempi non erano ancora maturi per accoglierla.
Copernico pone il Sole al centro dell'Universo ed i pianeti Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove e Saturno ruotanti intorno al Sole su orbite circolari, in ordine di distanza crescente. La Terra, inoltre, viene dotata di un movimento di rotazione su se stessa in senso antiorario, in modo da spiegare l'apparente rotazione diurna della Sfera celeste nel verso orario. La Luna, infine, è dotata di un moto di rivoluzione intorno alla Terra, che ne spiega le fasi.
Figura 3.
Già dalla descrizione qualitativa, la concezione copernicana ha il grande vantaggio di una maggiore semplicità rispetto a quella tolemaica. Da un punto di vista quantitativo, con l'ausilio di precisi calcoli matematici, la nuova ipotesi si concilia con le osservazioni e permette di rendere conto di tutte le apparenze meglio ancora del Sistema tolemaico anche se in maniera non molto più semplice. La concezione copernicana abolisce il privilegio di centralità conferito alla Terra e consentirà poi una più accettabile visione fisica.
Scrive Thomas Khun che: "il De Revolutionibus costituì la miccia di una rivoluzione che esso aveva a mala pena delineato. È un testo che provoca una rivoluzione più che un testo rivoluzionario".
In alcuni casi (p. es. il sistema Sole-Terra) la costruzione copernicana è addirittura più complessa di quella tolemaica. Questa complicazione verrà superata da Keplero(1571-1630), alcune decine di anni dopo Copernico, con l'introduzione d'orbite ellittiche e della costanza della velocità aureolare.
La prima ed importante verifica della validità del Sistema copernicano, venne da Keplero che poté utilizzare osservazioni di Marte molto accurate fatte dal suo maestro Tycho Brahe (1546-1601). Dopo vari tentativi e dieci anni di lavoro, Keplero pervenne in modo empirico alla formulazione delle tre leggi che portano il suo nome:
Ia Legge di Keplero: I pianeti descrivono intorno al Sole delle orbite ellittiche, di cui il Sole occupa uno dei fuochi.
Con questa legge cade il principio della circolarità dei moti planetari. Inoltre le orbite descritte dai pianeti acquistano identità fisica rispetto alle circonferenze tolemaiche, enti puramente geometrici.
IIa Legge di Keplero: Le aree descritte dal raggio vettore di ciascun pianeta sono proporzionali ai tempi impiegati a descriverle; ossia, il raggio vettore di un pianeta descrive aree uguali in tempi uguali.
Come conseguenza di questa legge, un pianeta si muove più velocemente quando è più vicino al Sole (perielio) e più lentamente quando è più lontano (afelio). Questa legge segna la caduta del principio dell’uniformità dei moti planetari.
IIIa Legge di Keplero: I quadrati dei tempi di rivoluzione dei pianeti intorno al Sole sono proporzionali ai cubi dei semiassi maggiori delle rispettive orbite.
Ne segue che la velocità media di un pianeta sulla propria orbita è tanto minore quanto più esso è lontano dal Sole.
Figura 4.
Le leggi di Keplero descrivono compiutamente il moto dei pianeti, ma non ne risalgono alle cause. Perché i pianeti circolano intorno al Sole, anziché allontanarsene in linea retta? Perché un corpo qualsiasi lasciato cadere precipita al suolo mentre questo non accade ai pianeti (Terra compresa) che non precipitano sul Sole?
I gravi in caduta libera con moto accelerato, ma pure i pianeti costretti a muoversi intorno al Sole e la Luna intorno alla Terra, provano l'esistenza di forze centrali che deviano i corpi materiali dalla condizione di moto rettilineo uniforme. Nel 1684 Newton fu in grado di enunciare la Legge di Gravitazione Universale:
due punti materiali qualsiasi si attraggono lungo la loro congiungente con una forza direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della distanza.
In formula, dette m1 ed m2 le masse dei due corpi, d la loro distanza ed F la forza agente, si ha: F = G(m1m2)/d2, dove G è la costante di Gravitazione (6.67·10-11N m2 /Kg2)
La Legge di Gravitazione è stata definita "Universale" in quanto la forza che regola la caduta dei gravi sulla Terra ed il moto dei pianeti nel cielo è la stessa. I cieli non sono più imperturbati e regolati da leggi divine, ma soggiacciono alle stesse leggi che regolano i fenomeni terrestri. Con l'opera di Newton (i cui risultati furono pubblicati nel 1687 nei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica) alla visione del mondo che salva la realtà metafisica, si sostituisce una visione del mondo che descrive la realtà attraverso leggi fisiche, di valore universale, che hanno come banco di prova l'esperimento. La Storia ci dice che questo passaggio non fu indolore.
La Meccanica celeste, che tratta della cinematica e della dinamica delle orbite dei pianeti del Sistema solare, dopo il grande sviluppo del calcolo differenziale legato all'opera d'illustri matematici (Newton, Leibniz, Lagrange, Laplace, Poincaré, solo per citarne alcuni) si sviluppò sino a diventare una delle massime espressioni delle fisica moderna. La possibilità di determinare in modo esatto le orbite dei pianeti nel Sistema solare fu uno dei maggiori successi della fisica "deterministica".
Grande era però il grado di difficoltà legato alla determinazione dei parametri dell'orbita di un pianeta, se raffrontato alle limitatezze degli strumenti di calcolo. Tra i pochi "strumenti matematici" a disposizione degli astronomi vi erano le tavole dei logaritmi e delle funzioni trigonometriche. I calcoli della determinazione delle orbite (ma anche quelli del sorgere o tramontare del Sole e della Luna) richiedevano mesi, se non anni, di duro lavoro. Ciò che oggi è possibile effettuare (il calcolo delle Effemeridi) con un normale Personal Computer, solo il secolo scorso era un'autentica sfida alle risorse di calcolo dei matematici e fisici dell'epoca. Nel secolo XIX , la conoscenza del moto delle orbite dei pianeti conosciuti, da Mercurio ad Urano, permise di prevedere l’esistenza di nuovi pianeti non ancora osservati sulla volta celeste.
Dopo la scoperta di Urano se ne determinò l'orbita trovando, nel 1830, una differenza tra le previsioni e la posizione vera di 20 secondi d'arco circa. Dal momento che la posizione di un pianeta nella sua orbita non dipende solo dall'attrazione gravitazionale del Sole ma anche dall'azione combinata degli altri pianeti, si diffuse in breve la certezza che la posizione d'Urano fosse sbagliata, perché non si era tenuto conto dell'attrazione di un corpo celeste situato ancora più lontano dal Sole.
Per identificare l'oggetto che produceva la perturbazione sull'orbita d'Urano occorreva conoscerne la posizione in cielo; il che richiedeva la soluzione di un'enorme quantità di calcoli effettuati tramite la teoria delle perturbazioni. Adams a Cambridge e Le Verrier a Parigi eseguirono i calcoli per determinare la posizione del nuovo pianeta utilizzando le posizioni note di Giove, Saturno ed Urano. A questo punto la mano passò agli astronomi che andarono a ricercarne la posizione predetta dai calcoli teorici.
La sera del 23 settembre 1846, l'astronomo Galle notò la presenza di un astro relativamente brillante dove la carta del cielo non riportava nulla. Encke, con il grande telescopio equatoriale dell'osservatorio di Berlino, notò che il nuovo corpo aveva la forma di un disco e che durante la notte presentava un moto significativo rispetto alle stelle di fondo. La posizione vera del nuovo pianeta risultava distare solo 55' dalla posizione indicata da Le Verrier e di circa il doppio da quella indicata da Adams: al nuovo pianeta fu dato il nome di Nettuno. In seguito si capì che se la ricerca del pianeta avesse avuto luogo qualche anno più tardi, date le incertezze sulla sua posizione teorica, difficilmente lo si sarebbe trovato.
Alla fine del secolo scorso Percival Lowell pose mano al problema delle residue perturbazioni dell'orbita di Nettuno. In conseguenza dello studio di queste perturbazioni, nel 1915 si dedusse la presenza di un pianeta di massa uguale a 6,5 masse terrestri ad una distanza di 42 U.A. nella costellazione dei Gemelli. Contemporaneamente allo studio dell'orbita di Nettuno nei primi anni del secolo furono quindi esaminate migliaia di fotografie del cielo prese nei pressi del piano dell'eclittica al fine di determinare in modo diretto l'esistenza di un nuovo pianeta.
Lowell morì nel 1916 e solo nel 1929 fu ripresa la ricerca del pianeta non ancora noto. Nel 1930 Tombaugh, nel momento in cui la costellazione dei Gemelli era in opposizione al Sole, trovò il nuovo pianeta assai vicino alla posizione definita da Lowell e gli venne dato il nome di Plutone. Poiché le dimensioni erano troppo piccole rispetto a quelle previste, rimase per molto tempo il dubbio che si trattasse veramente del pianeta di Lowell.
Il programma di ricerca continuò così fino al 1943, e fu esteso ad una vastissima zona di cielo ma nessun altro astro (nemmeno più piccolo di Plutone) fu scoperto. Nel frattempo l'accumularsi dei dati sulle posizioni di Urano e Nettuno permise di ridurre il numero delle perturbazioni di cui tenere conto. La massa di Plutone, che era stata prevista maggiore di quella effettivamente trovata, venne ricalcolata riducendola ad un valore inferiore a quella terrestre. La scoperta poi di un satellite di Plutone permise una più corretta valutazione della massa riducendola ulteriormente al valore di 0,0026 MT (masse terrestri).
Il fatto curioso, in questa fortunata previsione, è che la massa effettivamente osservata non avrebbe potuto in nessun modo influenzare le orbite di Urano e Nettuno, per cui risultò incomprensibile come mai Plutone fosse stato trovato proprio nel punto previsto da Lowell.